Ciao a tutti, mi chiamo Roberto, sono qui a presentarvi con qualche mia
fotografia l’isola che c’è,
VENTOTENE
chi la conosce già, potrebbe rivivere qualche emozione, mentre per coloro che
non sono ancora sbarcati,
potrebbe essere l'occasione giusta, farci un pensierino e decidere di
trascorrerci qualche giorno.
Buona “navigata” e spero che il tutto sia di Vostro gradimento, troverete nelle
notizie utili la mia e-mail
rimango in attesa dei vostri suggerimenti per migliorare il tutto. Ciao
La storia
La nascita
dell’isola è riconducibile ad alcune eruzioni databili pressappoco a un
milione e
settecentomila anni fa, durante le quali dal mare emersero e materiale
piroclastico.
L’isola di Ventotene, in tal modo, andò a costituire la parte superiore
di un cono vulcanico.
La forma e la struttura
definitiva dell’isola si ebbe un milione duecentomila anni fa.
L'isola era chiamata
dai Romani Pandataria (sembra dal culto della dea Panda, analoga a
Cerere),
poi Pantatera e infine
Ventotene. Fu sempre luogo di relegazione: Augusto vi mandò la figlia
Giulia;
Tiberio vi esiliò
Agrippina; Nerone vi fece uccidere Ottavia.
Rimangono rovine degli
edifici imperiali e delle opere portuali: il porto scavato nel tufo,
la peschiera, gli
imponenti resti archeologici di villa Giulia e le cisterne di villa
Stefania.
Caduto l'impero,
Ventotene divenne base navale bizantina; successivamente fu devastata
dai Saraceni
e per secoli fu
disabitata, finché Ferdinando I la ripopolò con pescatori e contadini
d'Ischia.
I Borboni diedero vita
ad una nuova urbanizzazione di Ventotene, la seconda dopo quella romana.
Mentre le strutture di
epoca romana erano troppo numerose per essere cancellate completamente,
le sporadiche
testimonianze dei secoli successivi, vennero spazzate via o totalmente
sostituite.
L'antico borgo marino,
la chiesa di S. Candida e l’imponente carcere sull'isolotto di
S. Stefano sono i più
importanti monumenti borbonici di Ventotene.
Durante il ventennio
fascista fu tristemente nota perché vi venivano relegati i confinati
politici;
fra questi vi erano
anche S.Pertini, A.Spinelli, E.Rossi, che nel 1941 redassero il
documento
programmatico del
federalismo europeo noto come il Manifesto di Ventotene.
Le Cisterne e l'Acquedotto
In epoca romana, il
rifornimento idrico nei centri abitati era garantito da serbatoi
in cui l’acqua
piovana veniva incanalata attraverso vasche e canali di immissione.
Il punto nevralgico
di tale sistema che approvvigionava tutta l'isola è collocato,
circa a metà
dell’isola, in una posizione strategica e funzionale.
Non disponendo di
una sorgente capace di sopperire in maniera costante al fabbisogno
idrico dell’isola, a
Ventotene, si ricorse all’istallazione di due grandi serbatoi
per la raccolta
diretta dell’acqua piovana e per quella indiretta delle acque di
filtrazione.
In tal modo, nel
versante meridionale dell’isola si diede vita ad una struttura
capace di
raccogliere e convogliare le acque di filtrazione e, al contempo,
raccogliere l’acqua
piovana.
Il faro posto all’imboccatura del
“Porto Romano” con l’isolotto di S. Stefano sullo sfondo.
notizie
sull’ penitenziario
Un
carcere in mezzo al mare
Inaugurato nel settembre
1795 fu da subito uno dei luoghi di reclusione più duri. Oggi
l’ex carcere di Santo Stefano per la sua architettura
rappresenta un unicum e meriterebbe di essere restaurato e
valorizzato.
Una costruzione a metà tra il castello
kafkiano e un eccentrico barocco napoletano: questa
l'impressione che ancora oggi desta l'imponente ergastolo di
Santo Stefano, che sorge sull'isolotto omonimo al centro del
Tirreno, di fronte alle coste del Lazio. Se già nell'antichità
romana quello scoglio impervio, assieme alla vicina Ventotene,
fu destinato a luogo di relegazione per i familiari imperiali
caduti in disgrazia, fu con Ferdinando IV di Borbone che divenne
un tetro luogo di reclusione.
Incaricato del progetto fu l'architetto
Francesco Carpi, allievo del Vanvitelli, che s'ispirò all'idea
del “Panocticon”, immaginato dal filosofo e giurista inglese
Jeremy Bentham che, sosteneva, grazie alla sua forma cilindrica,
avrebbe permesso ad un singolo uomo di «controllare l'intorno
tramite un unico sguardo». L'idea era stata maturata da Bentham
come mezzo per realizzare un sistema di controllo a vista,
funzionale e poco dispendioso, su un gran numero di lavoratori.
Solo in un secondo tempo il sistema fu adattato ad un centro di
reclusione. All'origine della singolare creazione non vi sono,
però solo ragioni pratiche, ma anche motivi filosofici e
teologici. La simbologia del cerchio, infatti, metaforicamente
sta a rappresentare l'occhio divino, sempre presente e che tutto
vede, ma inverificabile, che a Santo Stefano è rappresentato
dalla chiesetta al centro del panocticon dal quale s'irradiano
le celle.
La struttura originaria dell'ergastolo,
progettata tra il 1792 e il 1793, era a forma di ferro di
cavallo, chiusa anteriormente da un avancorpo con un cortile
centrale e due torri cilindriche poste a lato. Lungo il
perimetro interno, attraverso loggiati continui, si aprivano le
celle, in origine poste su due file, subito passate a tre dallo
stesso Carpi per aumentarne la capienza. Così come furono
ridotte le loro dimensioni da m 4.50 x 4,20 a 4,50 x 2,20, per
un totale di 99 celle. Benché incompleto, l'istituto
penitenziario fu inaugurato il 26 settembre del 1795 ed ebbe
subito i primi 200 detenuti che arrivarono in pochi anni a 600,
la quota prevista dal progetto. Un numero che sarà
abbondantemente superato, fino a raggiungere le 900 presenze: il
sovraffollamento sembra essere un fatto cronico per le carceri
italiane!
La vita che si conduceva era molto dura
e numerosi furono i tentativi d'evasione. Una fuga di massa si
ebbe già nel 1797 che fu a mala pena bloccata dalle guardie
carcerarie e che causò due morti e numerosi feriti. Nei tre
giorni d'attesa dell'arrivo dei rinforzi della truppe da Napoli,
mentre le guardie si erano asserragliate nei loro alloggiamenti,
ai detenuti non restò che godersi un'effimera libertà per le
balze dell'isola, non disponendo di mezzi con cui evadere. Altre
fughe furono tentate nel corso del tempo, come quella
pianificata nel 1860 da un certo Francesco Verisca che, con un
gruppo di camorristi napoletani, tentò, senza successo, di
liberare alcuni “affiliati” che vi erano ristretti.
I detenuti condannati a vita,
all'inizio erano vestiti con giubbotti rossi e con berretti
verdi mentre avevano berretti rossi quelli condannati a pene più
miti. In seguito, però, a tutti furono imposti una giubba, un
corpetto, calzoni e un berrettino di panno ordinario, color
marrone a quadroni.
A pochi anni dalla costruzione
l'ergastolo che, inizialmente doveva accogliere solo criminali
comuni, cominciò sempre più ad ospitare detenuti politici. A
cominciare dai moti napoletani del 1799, a seguito dei quali vi
fu rinchiuso per oltre un anno il nonno di Luigi Settembrini.
E proprio Luigi Settembrini fu uno dei
più illustri ospiti dell'ergastolo isolano. Tutti conosciamo il
famoso passo in cui il patriota e scrittore napoletano,
arrivando dal mare, avvista l'ergastolo: «Chi si avvicina a
Santo Stefano – scrive – vede dal mare sull'alto del monte
grandeggiare l'ergastolo che per la sua figura quasi circolare
sembra da lungi una immensa forma di cacio posta su l'erba. Il
gran muro esterno, dipinto di bianco e senza finestre, è sparso
ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di
strettissime feritoie, che danno luogo solo al trapasso
dell'aria». Era il 6 febbraio del 1851. Settembrini vi rimase
otto anni. Al momento del suo arresto i detenuti comuni erano
700 e 26 quelli politici. Quelli più pericolosi, che erano ai
ferri, si trascinavano per il cortile, parlando ai compagni
senza catene affacciati alle finestre. Quando entrò nella cella
che gli era stata destinata, Settembrini sostò timoroso e
impaurito. Grande fu la meraviglia, quando quegli uomini
abbrutiti gli si fecero incontro, aiutandolo a ristorarlo e
cedendogli persino il giaciglio, alternandosi ogni mattina nel
preparagli il caffè. Quei cinque compagni di cella, tutti
omicidi, suscitarono in lui un moto di pietà che si trasformò
presto in affetto. In quei pochi metri quadrati Settembrini,
protetto dalle cure di quegli uomini rudi, poté dedicarsi agli
amati studi di letteratura e scrivere le sue “Ricordanze”. La
vita trascorreva monotona, come scriveva lui stesso: «Qui il
tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, senza
stelle, immenso nel buio». Gli faceva eco Silvio Spaventa, suo
compagno di cella: «Sotto la cappa dell'ergastolo non c'è mai
niente di nuovo». Ciononostante i due, facendosi coraggio,
riuscirono a rincuorarsi e a trovare dentro di loro la forza
morale per continuare a sperare e a lottare.
I giorni sempre uguali erano rotti a
volte solo dal rito della punizione pubblica di un detenuto: «Il
colpevole è disteso bocconi, scrive inorridito Settembrini,
sopra uno scanno in mezzo al cortile e da due aguzzini con due
grosse funi impiastrate di catrame e immolate con l'acqua, è
battuto fieramente sulle natiche e sui fianchi ancora e sui
femori: i condannati devono riguardare».
Tra quelle mura si sono consumati
grandi dolori e oscure tragedie, come la morte di Antonio Prioli,
sacerdote calabrese, condannato a 7 anni di ferri per reati
politici, spentosi per un male, come scrive ancora accorato
Settembrini che «lo ha distrutto in 50 giorni».
Nel 1859 a Settembrini la pena fu
commutata in deportazione in Argentina. Il figlio Raffaele,
imbarcatosi sulla nave che avrebbe dovuto trasportare il padre
in Sud America, persuase il capitano a dirottare la nave in
Inghilterra, dove il patriota sbarcò, per tornare l'anno dopo in
Italia e rientrare nella vita civile e politica.
La tradizione di carcere dove far
sparire i detenuti scomodi, continuò anche durante il Regno
d'Italia. Nel 1906 vi fu rinchiuso Gaetano Bresci, l'anarchico
che il 29 luglio dello stesso anno aveva ucciso re Umberto I. Un
anno dopo Bresci fu trovato impiccato con un lenzuolo o un
asciugamano nella sua cella. Quella morte è ancora ammantata di
mistero. Il suo corpo non fu più ritrovato. Fu detto che era
stato sotterrato nel piccolo cimitero isolano, al cui ingresso
ancora campeggiano le scritte ormai sbiadite: «Qui finisce la
giustizia degli uomini - Qui comincia quella di Dio». Altri
affermarono che era stato gettato in mare. Le inchieste che
furono promosse non approdarono a niente, mentre non è stata mai
più trovata la famosa pagina 515 del registro dello status degli
ergastolani. Né fu più rintracciato il dossier che Giovanni
Giolitti scrisse sulla vicenda.
Con il tempo si stemperò l'utilizzo
delle angherie fisiche sui detenuti, ma non quello delle
punizioni morali. Nel periodo fascista il carcere di Santo
Stefano fu utilizzato come luogo di prostrazione di spiriti
scomodi, come Umberto Terracini, Sandro Pertini, Mauro
Scoccimarro e Rocco Pugliese. Quasi un secolo separa la
generazione degli antifascisti di Settembrini e Spaventa
all'interno di quelle mura, dove il tempo sembra essersi
fermato. «Se ci fosse l'inferno, saria come l'ergastolo», lasciò
scritto uno dei tanti “ospiti” lì rinchiusi per ordine di
Mussolini.
Dopo la seconda guerra mondiale il carcere
riprese la sua funzione per detenuti comuni, fino a quando fu
definitivamente chiuso il 2 febbraio 1965. Da allora è ancora
vivace il dibattito sulla destinazione dell'antico e ormai
storico manufatto. Trattandosi di un unicum, ultimo panottico
europeo sopravvissuto, l'ergastolo meriterebbe di essere
restaurato e valorizzato, a testimonianza di un tempo in cui la
pena era ancora vista come condanna irrimediabile e senza
perdono.
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puoi trovare informazioni anche sul sito:
www.filiarmonici.org
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